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La primmavera della street art napoletana

di Gianluca Riccio e Sara Ferraioli





Da qualche tempo in molti si misurano con l’opera ambiziosa di censire le storie della storia della street art in un’eterna rincorsa tesa a registrare la colatura di vernice più fresca, la colla di un poster non ancora seccata, l’odore di vernice spray misto a vaniglia che ancora serpeggia nell’aria. Se è vero che il tempo di quest’arte è corto e veloce, altrettanto necessaria appare l’esigenza di connettere e riportare l’insieme variegato e a tratti discontinuo di quelle storie, accomunate da una stessa matrice prima ancora che linguistica operativa, all’interno di una comune cornice storica e culturale.   Da questo punto di vista la città di Napoli, e ancor di più il suo ‘ventre’, si offre come un laboratorio prezioso; un incubatore ormai ventennale di esperienze di un’arte legata alla strada che, se esplorato, è in grado di restituire non solo l’immagine di un palcoscenico a cielo aperto ‘abitato’ dai segni di muralisti e graffitisti arrivati nel corso degli anni da ogni dove inseguendo il mito di un villaggio ribelle, ma soprattutto la specificità di un luogo che, per tradizione e vocazione, è stato capace di connettere l’estemporaneità – e la multiformità – dei segni stratificati sulla sua ‘pelle’ con la durata di un tempo storico non lineare ma rizomatico: di fondere in un corpo storico e spaziale circolare, contemporaneità e archeologia. Città eternamente adolescente, che porta sul proprio ‘volto’ i segni di una storia ancestrale e, allo stesso tempo, le forme di un futuro declinato nel qui ed ora di un presente continuo, Napoli, proprio in quanto città che declina la sua identità culturale e antropologica nella vita di strada, è divenuta nel tempo il luogo che più di ogni altro è stato in grado di accogliere l’arte che vive la sua più autentica dimensione nella strada, dentro una relazione osmotica tra tessuto e stratificazione urbana e segno artistico, al punto che ogni volto dipinto, ogni scritta rilasciata da artisti di ogni dove, appare vecchia e nuova al contempo; pensata per abitare lo scorcio del proprio apparire prima ancora che secchi al muro.

La genealogia della street art napoletana, risalendo indietro nel tempo, ci riporta ai contatti della cultura artistica locale con i muralisti sudamericani, ospitati in veste di rifugiati politici già nella metà del secolo scorso, e soprattutto all’operato del padre putativo di tutta la generazione di street artisti contemporanei: Felice Pignataro, ‘il più prolifico muralista al mondo’, che sul volgere degli anni ’70, calando la lezione del muralismo ‘politico’ proprio della tra- dizione sudamericana nel contesto della periferia napoletana, aveva dipinto, secondo una leggenda che continua a perpetuarsi, oltre 200 muri tra città e provincia. Nello stesso periodo, tra la fine degli anni settanta e i primissimi ottanta, la presenza e l’azione di figure quali Lucio Amelio ed Ernesto Esposito – galleristi, mecenati o semplici estimatori dell’emergente fenomeno del muralismo urbano – aveva creato una connessione tra il mondo dell’arte contemporanea e la scena più alternativa della cultura underground metropolitana intensificando, anche sul versante dell’arte di strada, quel rapporto, destinato a divenire via via privilegiato, con New York sua gemella posta all’estremo dello stesso parallelo, il quarantunesimo. Gli anni ’80, a partire da tale azione combinata tra arte ‘alta’ e ‘bassa’, tra linguaggi ‘colti’ e nuove forme espressive popolari, fanno di Napoli una sorta di ‘repubblica marinara’ della cultura hip-hop che sulla sua rotta incrocia la Grande Mela, da cui importa e verso cui esporta musica, street style e tecniche. Il muralismo da una parte, il graffitismo e la cultura hip hop dall’altra, compongono un quadro particolareggiato e composito della scena artistica ‘di strada’ napoletana; ma è l’approdo a Napoli nei primi anni ’90 di Ernest Pignon che segna un passaggio ulteriore nella storia della street art partenopea e, più in genere, del rapporto tra scena urbana e intervento artistico. Per la prima volta con Pignon ci si trova di fronte a un linguaggio che, modulando al suo interno azione e tradizione e ricomponendo la frattura tra un’arte vissuta nel chiuso del museo e un segno artistico che spinge per vivere nell’aperto della strada, s’incarica di saldare in un unico destino − linguistico e storico − figura e sfondo, immagine e muro, arte e città. Anfratti architettonici, nicchie mura- te, finestre sbarrate diventano per l’artista francese, il palcoscenico di un’azione, e di un’apparizione, continua; il terreno di una convivenza non più alienata ma naturale, tra arte, artefice e territorio. Cessando di esibire sé stessa, l’arte inizia ad abitare la città come un’entità viva e partecipe del suo tempo, presente e sepolto. Pignon infatti, diversamente da tutta la tradizione di artisti di strada succedutasi fino a quel momento in città, non lotta per un ideale, non è trascinato a Napoli dal fascino della rivoluzione, ma appare interessato a restituire alla città lo sfarzo della sua decadenza, la consistenza del suo abbandono. Così, attingendo liberamente alla storia attraverso una prassi di appropriazione e riproduzione di un vocabolario iconografico di matrice caravaggesca, l’artista d’oltralpe svela la città ai suoi stessi abitanti: la strada, con i suoi angoli più battuti e al tempo stesso più nascosti, si rivelano all’osservatore e al viandante non soltanto per ciò che sono e non più per quello che una visione pittoresca ha scelto di far essere, ma piuttosto per quello che quei muri porosi hanno accolto e ora riflettono: una sorta di memoria storica che si fa vivida presenza. Per una decina di anni i ‘poster’ dell’artista francese − sottili riproduzioni su carta rigorosamente in bianco e nero d’immagini o dettagli della pittura seicentesca napoletana − abitano la città aderendo letteralmente al suo ventre, partecipando al suo destino di vita ed estinzione, di appariscenza e consunzione. Il gesto, tanto naturale quanto denso di risvolti concettuali, trasferisce alla generazione di artisti successiva un lascito decisivo per l’evoluzione del loro linguaggio e per la direzione del proprio operare: l’arte tutta, e in particolare quella che sceglie la città come spazio del proprio agire, porta con sé, e in sé, una responsabilità non solo estetica o meramente culturale, ma invece più pienamente pubblica. In quanto tale ogni gesto artistico è chiamato ad adattarsi e a porsi in relazione tanto alle forme archi- tettoniche metropolitane quanto all’occhio di chi osserva.

Così, nel solco dell’esperienza ‘murale’ maturata da Pignon, a partire dagli anni duemila Napoli risponde alla progressiva musealizzazione di artisti pionieri della street art come Basquiat e Haring che si registra nel mondo anglosassone con un rovescia- mento di prospettiva: allargare il concetto di museo nelle strade e spingere gli artisti a contaminare il loro lessico con quello dei rioni, della napoletanità antica e contemporanea, mescolando, come nel caso di Banksy, in un unico segno la silhouette di una santa ripresa dalla facciata di una chiesa barocca con l’immagine di una pistola rubata alla camorra.

La cosiddetta primmavera napoletana, termine con cui, parafrasando la definizione che di Napoli venne data nei primi anni novanta per sancirne la rinascita civile e culturale, ci si riferisce alle opere di quegli artisti che negli ultimi anni hanno invaso ed invadono i vicoli del centro storico, ancora oggi sembra inafferrabile e irriducibile a una rigida categorizzazione. Già in un precedente studio di alcuni anni fa nel censire i ‘cantieri’ della città, avevamo evidenziato tre macro-filoni della street art napoletana scegliendo di analizzarne più da vicino quello ascrivibile alla tradizione del muralismo, caratterizzato da un forte ancoramento al passato e da una capa- città, linguistica e iconografica, in grado di narrare il presente del luogo. Gli altri due filoni, che corrono su binari paralleli incrociandosi reciprocamente in qualche sta- zione, vedono tra le proprie fila da un lato chi non ha mai smesso di realizzare graffiti e che ancora oggi organizza jam in stile newyorkese, ospitando artisti internazionali facendo così scalare alla città i vertici della classifica di capitale internazionale del graffitismo; e dall’altra le star della street art globale − da BLU a Bosoletti, fino alla stella del firmamento napoletano Jorit Agoch − che intervenendo su superfici enormi con alle spalle committenze pubbliche, continuano a cercare un contatto con la città vera nei vicoli del ventre di Napoli, in cerca di un’anima ancora underground. In questo quadro, così schematicamente riassunto, ci è sembrato oggi come allora più interessante osservare da vicino chi, tra gli street artisti napoletani, preserva una dimensione di illegalità operando nel clima di un placido consenso cittadino: riscrive- re cioè, nelle sue coordinate essenziali, la geografia di una cerchia ristretta di muralisti la cui azione è (quasi) sempre accolta dal- la città e percepita dai suoi abitanti come rigenerante.

Le mani napoletane sulla città hanno infatti previsto negli anni una spartizione equa del territorio. Il centro − la vetrina più importante − è di proprietà non esclusiva della crew KTM che, faticando a circoscrivere il proprio operare all’interno di un processo di storicizzazione, si riconosce nell’azione e nella progettualità dei suoi capi-esecutori Cyop&Kaf. Diego Miedo, Arp e Zolta, senza il peso di un passato così ‘leggendario’ alle spalle, sono i liberi frequentatori tanto del downtown cittadino quanto della periferia sud-est, in un perimetro metropolitano che dalla zona di Gianturco s’inoltra fino al decumano maggiore. A nord invece, tra Scampia e Piscinola, si muove Raro, solitario ma non isolato, vero e proprio passe-partout degli artisti internazionali che arrivano a Napoli spinti dal desiderio di disegnare i muri delle ormai celebri Vele. Nel tempo le visioni personali degli artisti che compongono il gruppo, variegato per età anagrafica e precedenti storici, hanno generato, come in un vero e proprio processo osmotico e di mutua filiazione formale, una sorta di substrato iconografico comune; una matrice e un repertorio, prima ancora che stilistico, immaginifico. Da nord a sud, ciascuno di loro con il proprio bagaglio di esperienze e formazione artistica e culturale, ha dipinto quasi esclusivamente figure mostruose: santi distorti, macrocefali inerpicati sulle facciate cittadine, corpi deformi che meglio di ogni altra immagine sembrano aver saputo raccontare il purgatorio napoletano e con esso le difficoltà della vita quotidiana, l’inquinamento ambientale e sociale, la narrazione delle macerie e dello splendore del vivere cittadino. Con le loro contorte membra queste figure mostruose, abitanti di un tempo sospeso e di uno spazio inconscio, hanno trovato dimora in ogni luogo. Le loro forme gonfie o contratte, gli sguardi sereni o crucciati che le caratterizzano, richiamando nello spettatore qualcosa di archetipico, hanno finito con l’assolvere una funzione pedagogica. Tendere a questo comune quanto storicamente indefinito passato ancestrale infatti, ha reso questi corpi universalmente leggibili: ha preservato in ogni osservatore la possibilità e la libertà di comporre la pro- pria narrazione di fronte a ciò che guarda, rigenerando prima ancora che la superficie muraria degli ambienti metropolitani, lo spazio mentale dei suoi abitanti. Tanto in centro, dove la città si verticalizza offrendo poco − e promiscuo − spazio a chi la abita e la disegna, quanto in periferia, laddove le distanze tra gli esseri umani si fanno siderali, rendendo questi colossali mostri dipinti figure galleggianti nell’enormità del grigio cemento dei ghetti di Napoli, lo sguardo e la partecipazione benevola e attiva della cittadinanza ha permesso l’esecuzione e l’esistenza stessa di queste grandi opere, generando una ricaduta di quei segni ‘mostruosi’ dalla sfera puramente icastica e immaginifica, a una dimensione aperta- mente condivisa e sociale.

Napoli continua così ad offrirsi come contenitore e laboratorio perpetuo di questa storia dal tempo, dicevamo, corto e antichissimo, presente e archeologico, liquido e insieme adolescente. La sfida all’autorità − paterna − mediata dalla mano accogliente, materna, di chi assiste allo svolgimento di questo tempo e di queste pennellate, la rendono unica e ancora sincera, fieramente anarchica ed inesauribilmente attrattiva. A chi vi approda, come per la raccolta del Tesoro di San Gennaro, viene implicitamente chiesta una cosa soltanto: lasciare un segno del proprio passaggio che sarà curato, come la mentalità impone, dalla strada.

MADONNA CON LA PISTOLA - BANKSY. 📍Napoli, P.zza Gerolamini
MADONNA CON LA PISTOLA - BANKSY. 📍Napoli, P.zza Gerolamini


 
 
 

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